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Statine uguale Diabete. Non era meglio il colesterolo?

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Di Rossella De Pace
La loro principale funzione è inibire la sintesi endogena del colesterolo per questo sono tanto amate dai cardiologi e rappresentano la principale forma di cura dei pazienti cardiopatici.
La prima tappa della biosintesi del colesterolo vede due molecole di acetil-CoA condensarsi e formare acetoacetil-CoA che a sua volta reagisce con una terza molecola di acetil-CoA per generare un composto a sei atomi di carbonio β-idrossi-β-metilglutaril-CoA (HMG-CoA).
Queste prime reazioni sono catalizzate dalla HMG CoA sintetasi e sono reversibili e non costringono la cellula a sintetizzare il colesterolo.
La terza reazione potrebbe essere vista come la tappa di comando, ovvero, la riduzione dell’HMG- CoA a mevalonato ad opera dell’enzima HMG-CoA reduttasi.
Le statine agiscono proprio inibendo questo enzima e di conseguenza la produzione di molecole di colesterolo.
Gli effetti indesiderati dovuti al consumo di questi farmaci sono da ricondurre al fatto che essi inibiscono non solo la produzione del colesterolo ma anche quella di un intera classe di sostanze intermedie, la gran parte delle quali, svolge importanti funzioni biochimiche.
Infatti, oltre al colesterolo, tra i prodotti della catena del mevalonato, c’è l’ubichinone anche noto come Coenzima Q10.
Questi è un nutriente fondamentale sintetizzato nei mitocondri che interviene nella produzione di ATP cellulare e funziona come trasportatore di elettroni verso la citocromo ossidasi, il nostro principale enzima respiratorio.
Il Coenzima Q10 è fondamentale per preservare l’integrità della membrana cellulare, ai fini della conduzione nervosa e l’integrità muscolare; inoltre risulta vitale per la formazione di elastina e collagene.
Ne deriva che uno degli effetti della carenza di ubichinone, dovuto proprio all’azione delle statine a livello dell’enzima HMG-reduttasi, è la perdita del tono muscolare che porta debolezza, dolore muscolare (rabdomiolisi), a volte grave lombalgia, neuropatie caratterizzate da formicolio e dolori alle mani e ai piedi, infiammazione dei tendini e dei legamenti.
Recentemente, oltre agli effetti sopra enunciati, da tempo noti, alcuni studi hanno dimostrato che l’uso prolungato di questa classe di farmaci potrebbe aumentare il rischio di insorgenza del diabete.
Sattar e altri nel 2010 hanno condotto una meta-analisi di tutti i dati disponibili provenienti da 13 trials randomizzati controllati verso placebo o terapia standard con più di 90.000 partecipanti.
I dati confermano che la terapia con statine è associata ad un 9% di rischio di sviluppare il diabete con scarsa eterogeneità tra i vari studi.
In una review condotta da Sattar e Preiss del 2011 sono stati pubblicati dati che confermano un effetto dose-dipendente , con un 12% di rischio maggiore di sviluppare il diabete in pazienti sottoposti a una terapia con statine intensive-dose rispetto ad una terapia moderate-dose.
Si è notato che su tre pazienti, che gode di un beneficio cardiovascolare, uno sviluppa il diabete.
Gli studiosi concludono che la spiegazione di un incremento del rischio di sviluppare il diabete in seguito all’assunzione di statine è ancora inspiegato e i benefici cardiovascolari della terapia, nel mondo scientifico, chiaramente, hanno un maggior peso rispetto al rischio di sviluppare la malattia. Tuttavia i dati suggeriscono la necessità di rendere consapevoli i pazienti del possibile rischio e quindi suggeriscono di monitorarli, specialmente, quelli sottoposti a terapia intensive-dose.
In seguito ai risultati pubblicati dalla ricerca condotta proprio da Sattar e altri, la Food and Drug Administration (FDA), negli Stati Uniti ha lanciato l’allarme per l’uso delle statine.
La FDA, che si occupa di sicurezza alimentare e medica, ha messo in guardia i pazienti che assumono regolarmente questi farmaci anticolesterolo sui rischi di un aumento del livello di zuccheri nel sangue.
L’ente americano è intenzionato ad aggiungere sotto la voce “attenzione e precauzioni” dell’etichette delle statine il “rischio diabete”, in particolare in riferimento ai farmaci popolari come Lipitor (atorvastatina), Lescol (fluvastatina), Zocor (simvastatina), Mevacor (lovastatina), che vengono assunti da anni da milioni di persone per prevenire infarti, ischemie e disturbi cardiovascolari.
Le case farmaceutiche ancora non hanno espresso alcun parere in merito alla questione.
All’indomani della pubblicazione da parte della FDA, uno dei più noti cardiologi mondiali, Eric Topol ques’anno, ha pubblicato un articolo sul New York Times che non è passato inosservato: The Diabets Dilemma for Statin Users .
In questo scritto Topol appoggia la posizione dell’ FDA perché pone in rilievo una problematica da molti sottovalutata.
Egli trasferisce i numeri estrapolati dai trials clinici nel contesto degli Stati Uniti riscontrando sui 20 milioni di americani che prendono statine circa 100 mila nuovi diabetici da statine.
Secondo Topol tale rischio vale la pena correrlo nei casi in cui ci sia un guadagno in termini di prevenzione di malattie cardiovascolari ma questo non si verifica in termini di prevenzione primaria, cioè per quei pazienti che non hanno mai avuto una cardiopatia e che prendono statine per abbassare il rischio.
Topol conclude il suo articolo affermando che il problema messo in luce dall’FDA non è poi così piccolo. Non è da sottovalutare a meno che non si ritenga che più di 100 mila nuovi diabetici siano insignificanti.
Sempre in merito alla questione, Derosa e altri pubblicano uno studio del 2011 nel quale riconoscono nella pitavastatina, usata da diverso tempo in Asia e, a breve, disponibile anche in Italia, una statina innovativa per quanto riguarda l’efficacia nell’abbassare i livelli di colesterolo LDL.
“Essa si è dimostrata anche efficace nel ridurre il rischio di eventi cardiovascolari e nell’avere un effetto positivo sul colesterolo HDL, aumentandone i livelli in maniera maggiore rispetto alle altre statine. Inoltre, diversamente dalle altre, la pitavastatina ha dimostrato di non aumentare il rischio di sviluppare diabete e di non peggiorare il compenso glicemico quando somministrata in soggetti già affetti da diabete mellito”.
Culver e altri, sempre nel 2012, sono stati gli autori di una recente ricerca condotta nell’ambito dello studio di popolazione Women’s Health Initiative e dalla quale emerge che l’impiego di statine si associa a un aumento significativo del rischio di diabete mellito nelle donne in menopausa.
A queste conclusioni si è giunti analizzando i dati di 153.840 donne di 50-79 anni senza diabete al momento dell’arruolamento.
L’assunzione di statine è stata verificata all’inizio dello studio e al terzo anno di follow up, mentre l’insorgenza del diabete è stata monitorata annualmente.
In condizioni basali l’uso delle statine si associa a un incremento della probabilità di insorgenza del diabete e si osserva con tutti i tipi di statina utilizzati. Dalle analisi per sottogruppi è risultato che tanto minore è il BMI tanto maggiore è il rischio di insorgenza di diabete, verosimilmente per il diverso assetto ormonale con il variare della massa corporea.
Gli autori concludono che ulteriori studi per tipo di statina e per dose utilizzata potrebbero rilevare diversi livelli di rischio di nuova insorgenza di diabete mellito in questa popolazione.
Ma perché l’uso delle statine aumenta il rischio di insorgenza del diabete?
Un potenziale meccanismo potrebbe essere legato alla circostanza che le statine vanno ad influenzare direttamente l’azione dell’insulina a livello del muscolo o del fegato aumentandone la resistenza. Questa osservazione si basa sul fatto che è stato dimostrato, in studi condotti su animali, che la miopatia indotta dal trattamento con statine è associata con un maggiore sviluppo di insulino-resistenza a livello muscolare.
Di certo, ancora non c’è molto nel mondo scientifico ma, come dimostrano le recenti review di Colbert e di Gilpin, possiamo dire che l’interesse è tanto e i dati a disposizione sono sufficienti per ipotizzare che in questi anni ci sia stato un uso eccessivo, se non proprio un abuso, di questa classe farmaceutica con le relative conseguenze dannose per l’organismo.
Ciò è accaduto perché spesso si è ignorato che l’assunzione del colesterolo con il cibo impedisce la produzione di quello endogeno, dato che ogni molecola assunta con gli alimenti va ad inibire l’azione dell’enzima HMG-CoA reduttasi lavorando, quindi, proprio come le statine.
L’effetto sarebbe, dunque, pari a 0.
Dovremmo capire che non è tanto il valore in sé del colesterolo totale ad interessarci quanto il rapporto tra esso e quello HDL cosiddetto “buono” i cui valori ottimali sarebbero 5 per le donne e 4,5 per gli uomini.
Alla luce di quanto detto sull’uso delle statine e sui loro effetti possiamo concludere dicendo che sarebbe auspicabile effettuare il controllo sul colesterolo nei due modi seguenti:
1) limitando le calorie totali assunte perché l’iperconsumo di qualunque alimento porta alla produzione di acetil-CoA, che sappiamo essere il precursore del colesterolo;
2) riducendo lo stress perché favorisce la produzione di cortisolo che mostra affinità per i recettori epatici del colesterolo, bloccandoli, e quindi favorendo la libera circolazione delle molecole di colesterolo.
Del resto, anche le recenti linee guida europee di cardiologia, sottolineano come la terapia iniziale nelle ipercolesterolemie non gravi, possa essere quella basata su una corretta alimentazione abbinata all’attività fisica, sufficienti per avere una risposta clinica adeguata senza alcun effetto collaterale spiacevole.

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