di Luca Speciani
UNIRE LE COMPETENZE
La mia esperienza scientifica e clinica, maturata in campi differenti, mi ha portato a riflettere sul fatto che un medico completo, che cerchi la vera guarigione del proprio paziente, non può esimersi dall’affrontare anche gli aspetti psicologici che accompagnano o in altri casi sostengono la malattia. Specularmente occorre prendere atto del fatto che il lavoro dello psicologo non può pensarsi limitato a una sfera psichica teoricamente (e cartesianamente) isolata dal resto del corpo. Il bravo psicologo deve prendere atto del fatto che con il suo lavoro sta svolgendo a tutti gli effetti un atto medico, che può avere conseguenze profonde sul piano fisico oltre che su quello psichico, sulla base del fatto che aspetti fisici e psichici altro non sono che fenomeni espressivi differenti di una sostanziale unità. Che non può non essere colta da chi si ponga come terapeuta “isolato” nell’uno o nell’altro campo.
“Siamo tutti nani sulle spalle di giganti”, ebbe a dire Einstein riferendosi al fatto che ciascuno scienziato, per quanto creativo e intuitivo, può raggiungere nuovi traguardi solo grazie a quanti lo hanno preceduto con le loro scoperte, consentendoci di spiccare il volo. Per rendersene conto basti pensare a quanti tra noi, nella situazione di Benigni e Troisi nel film “Non ci resta che piangere” (in cui i due attori si trovavano, sbalzati dal fato in pieno Rinascimento, a non riuscire a spiegare a Leonardo da Vinci il funzionamento di una lampadina, di una fognatura, di un treno) avrebbero trovato le stesse difficoltà.
Nei confronti della psicosomatica, dunque, proveremo qui a fare un salto in avanti, consentitoci solo dalla grandezza di coloro che ci hanno preceduto, intuendo, talvolta senza alcun supporto biologico o molecolare, l’intima correlazione bidirezionale tra corpo e psiche.
Alcuni dei miei maestri hanno a lungo lottato contro concezioni riduzionistiche e meccanicistiche dell’uomo e della sua salute introducendo una visione più ampia e articolata della sua complessità. Ma l’hanno fatto (e qui il loro grande merito) senza disporre minimamente degli strumenti di conoscenza molecolare, ormonale, di segnale di cui oggi invece abbiamo piena e approfondita conoscenza. Il che consente a noi di fare un ulteriore balzo in avanti nel cogliere una complessità che, se incomincia a palesarsi a piccoli gruppi di scienziati e di clinici, ancora, ahimé, sfugge a molti. Oggi è sempre più necessario colmare questo vuoto.
AVEVAMO RAGIONE NOI
Il fulcro di molte teorie e lavori incentrati sulle interazioni corpo/psiche della fine del secolo scorso altro non è se non la convinta descrizione del fatto che la mente sia in grado di influenzare in modo potente alcune risposte corporee, fino al sorgere della malattia. I più illuminati arrivarono anche a definire una bidirezionalità del fenomeno, che non aveva più quindi una direzione gerarchica mente/corpo ma anche l’inverso, trasformandosi in una relazione continua di dialogo e di interazione. Le conoscenze biochimiche e ormonali della seconda metà del secolo scorso, tuttavia, non consentivano un inquadramento preciso di questi fenomeni all’interno di cellule e organi. Basti pensare che l’individuazione dei fattori di rilascio ipotalamici è incominciata con Schally e Guillemin (poi Nobel nel 1975) solo nel 1969. La bidirezionalità di segnale Pnei tra sistema nervoso e sistema immunitario si deve a Blalock a metà degli anni ’70. E la scoperta di Friedman della leptina, forse il più potente ormone di regolazione delle funzioni ipotalamiche, risale appena al 1994. Grazie a queste nuove conoscenze i meccanismi di interazione tra mente e corpo sono stati grandemente chiariti e hanno sancito in modo chiaro e inconfutabile la “vittoria” degli psicosomatisti verso coloro che, ciechi e sordi ma ahimé non muti, negavano qualunque influenza patologica o di guarigione agli aspetti psichici.
Chi nel secolo scorso si era occupato dell’interazione tra questi aspetti interconnessi era evidentemente un miglior medico rispetto a coloro che li ignoravano. La storia, oggi, ce lo dice con estrema chiarezza. Così come ci dice che Semmelweiss aveva ragione a richiedere il lavaggio delle mani ai medici per non trasmettere la febbre puerperale. Ma ciò non ha impedito ai detrattori di Semmelweiss, e in epoche più recenti ai detrattori della psicosomatica, di dare dei ciarlatani a coloro che avevano ragione, orientando dai loro posti di potere le politiche sanitarie generali, con danni purtroppo visibili ancora oggi.
Se la medicina del nuovo secolo si sta perdendo tra esami inutili, abusi farmacologici e totale perdita di vista delle vere cause della malattia, la colpa è anche in parte di chi, impermeabile a ogni richiamo, ha voluto negare per decenni l’esistenza dell’altra metà dell’essere umano.
LA FINE DELLA PSICOSOMATICA?
La vittoria della psicosomatica, tuttavia, ne ha anche, in un certo senso, decretato la fine. La dimostrazione biologica, biochimica e molecolare di tutto ciò che veniva affermato dagli psicosomatisti ha consentito alla fine a chi era bloccato nello schema puramente meccanicistico dell’uomo-robot, di affermare che in fondo le nuove scoperte dimostravano solo che tutto era, appunto, biochimico e biologico. Lasciamo loro questa piccola soddisfazione, a due condizioni. La prima è che ammettano di avere sbagliato: che la mente sorga come proprietà intrinseca dalla complessità biologica del nostro cervello, non cambia il risultato finale: i nostri pensieri, le nostre convinzioni, la nostra cultura, le nostre esperienze sono in grado di influenzare con forza la nostra salute e la nostra malattia. Chi lo negava, sostenendo che la malattia era puramente un fatto d’organo o di cellule aveva torto. La seconda condizione è che, preso atto di queste evidenze scientifiche, si accetti finalmente di costruire insieme una medicina più rivolta all’uomo. Che tenga conto della complessità del nostro organismo e delle profonde interazioni tra mente e corpo, tra esperienze e malattia.
Viene quindi a verificarsi una sostanziale unità d’intenti tra una metodologia psicologica rivolta all’efficacia terapeutica e una medicina umana che rifiuta la pura soppressione sintomatica per perseguire una vera guarigione. Tema che ho trattato con Giorgio Nardone nel nostro “Mangia, muoviti, ama” edito da Ponte alle Grazie.
Entrambe queste correnti di pensiero hanno ribaltato molte delle convinzioni dominanti. In campo psicologico è stata ridata dignità a un processo di cura rivolto all’efficacia (anche a mezzo di stratagemmi terapeutici paradossali), invece che al rispetto di teorie datate, di dubbia efficacia e di lunghissima durata. In campo medico si è dato valore ai processi interni di guarigione, rifiutando le facili scorciatoie della soppressione sintomatica, lavorando su alimentazione, movimento, stile di vita. Non possono dunque sfuggire, a chi conosca entrambe le tematiche trattate, i numerosi punti d’incontro sulla via di una completa guarigione.
L’OMS (prima di diventare di proprietà di Bill Gates) ha correttamente definito la salute non come assenza di malattia ma come pieno stato di benessere fisico, psichico e sociale. Uno stato di benessere che non potrà mai essere raggiunto imbottiti di farmaci e trascinandosi come zombies tra casa, lavoro e tasse da pagare. Mangiare sano e abbondante, muoversi con piacere e amare ciò che si vive è forse una ricetta troppo semplice per chi si diletta di innovativi strumenti diagnostici e di farmaci soppressivi di ultima generazione, ma una guarigione vera e duratura passa da qui. Ed è quella che ogni bravo psicologo (che non sa di essere anche medico) e ogni bravo medico (che non sa di dover essere anche psicologo) devono perseguire ogni giorno.
Articolo pubblicato su L’Altra Medicina