Riceviamo dall’amica – e punto GIFT – Paola Brasca, le seguenti considerazioni, che raccogliamo, facciamo nostre e rendiamo volentieri pubbliche.
Caro Luca, nei giorni scorsi ho letto un interessantearticolo della dott.ssa Daniela Mariani Cerati(neuropsichiatra al Policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna), una sorta di review sullo stato delle conoscenze attuali riguardo all’autismo, sia sulla fisiopatologia che sulle terapie.
Mi sono permessa di scriverti due righe perché l’esempio ben si presta ad alcune considerazioni più ampie in merito alla cura della persona e al fare medicina.
La collega infatti esordisce ricordando che “Alla base della buona pratica in medicina sta la ricerca di base e applicata che genera la Evidence Based Medicine (EBM = medicina basata sulle prove). Nel campo dell’autismo la ricerca è partita con grande ritardo e non ha ancora generato una EBM, per cui mancano le radici che stanno alla base della buona pratica clinica. Ciò nonostante, si fa un enorme uso di psicofarmaci. Questo senza la guida della sperimentazione. In mancanza di questa base la prescrizione di farmaci avviene senza linee guida, per analogia tra i sintomi che presentano le persone con autismo e quelli di altre sindromi. Purtroppo sintomi simili in contesti diversi non rispondono nello stesso modo ai farmaci. Nell’autismo l’effetto paradosso e gli effetti collaterali sono la regola e gli effetti desiderati l’eccezione”.
L’articolo, che secondo me è molto ben scritto, mostra poi tutta una serie di opzioni terapeutiche che sono state proposte per il controllo dei sintomi più frequenti dei soggetti autistici, scelte andando per similitudini e per analogie, in assenza di qualunque standard EBM e spesso contro ogni evidenza.
La prima riflessione che mi viene da fare è cosa significhi curare. Curiamo il sintomo, curiamo la malattia o curiamo una persona? In questo caso poi, essendo l’autismo un deficit del neurosviluppo che esordisce tipicamente nell’età infantile, ci rivolgiamo a bambini, ovvero a soggetti intrinsecamente fragili e che lo diventano ancor di più per le caratteristiche di malattia: spesso non verbali, non autonomi, non in grado di comunicare necessità o esprimere bisogni…
Cosa andiamo a curare noi? L’agitazione con un sedativo? L’irritabilità con un antipsicotico? Domande che un medico dovrebbe sempre porsi quando si avvicina ad un malato…
La seconda riflessione invece nasce dal rapporto tra ricerca e prescrizione farmacologica: se posso darti un farmaco, faccio ricerca sulla tua malattia per “dimostrare”che il farmaco serve o che il mio è migliore o via discorrendo.. Ma se non vi è spazio di prescrizione, la ricerca si blocca, i protocolli decisionali basati su conoscenze e competenze ben precise vengono meno.. Al di fuori del “mercato” terapeutico non vi è dunque possibilità di cura? E curare significa sempre prescrivere?
A questo proposito la dott.ssa Cerati, nel corso dell’articolo, ribadisce “La sensazione è che continui un totale scollamento tra i dati della letteratura seria e la pratica clinica, disancorata da qualsiasi razionalità e lontanissima dalla EBM. D’altra parte la gravità della condizione con il conseguente bisogno di fare qualcosa e il vuoto di conoscenza e di terapie Evidence Based favoriscono l’uso di farmaci sia della medicina convenzionale che di quella alternativa, con prescrizioni off label e, verrebbe da dire, fuori dalla logica comune. La condizione è grave. L’industria non è interessata. Di fronte a problemi gravissimi che riguardano tanta parte della società, non è un obbligo morale dell’Industria, ma dei governi, prendere atto seriamente del problema, fare emergere ciò che sino ad ora è stato sommerso e iniziare un monitoraggio dell’esistente per migliorare la situazione”.
L’ultima riflessione che faccio è questa: come posso curare qualcosa che non ha mercato? Non a caso la maggior parte dei soggetti autistici riceve le terapie, soprattutto quelle comportamentali, all’interno dell’ambito domestico o in centri al di fuori del SSN, spesso ONLUS che si barcamenano tra le spese ingentissime e la necessità di far fronte almeno in una certa misura a un problema di alto impatto sociale.
In questo contesto può certamente rientrare anche la lotta per una diffusione di quei concetti alimentari di base in grado di interagire con questa specifica disabilità, che almeno hanno il pregio di non generare effetti collaterali. Per non doversi trovare poi ad acquistare alimenti senza glutine pieni però di conservanti, edulcoranti o alimenti raffinati.
Penso che fare medicina sia ben altro che dare farmaci, penso che fare ricerca sia ben più che dimostrare che il mio farmaco è il più buono, penso che la pianificazione sanitaria debba tenere conto delle disabilità future e non mostrarsi impenetrabile ai bisogni dell’oggi..
Ricordiamocelo. E ricordiamolo anche agli altri.
Con affetto.
Paola Brasca, medico e mamma.

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