Quando si studia Medicina è oltremodo frustrante leggere, all’inizio della trattazione di molte patologie autoimmuni, la frase “eziologia sconosciuta” (e cioè non abbiamo idea del perchè ci si ammali). Conoscere le cause significa spesso anche saper indirizzare i pazienti verso una cura reale, invece di gestire una semplice soppressione farmacologica del sintomo. Nel caso delle patologie autoimmuni sono diversi i lavori degli ultimi dieci-quindici anni che hanno documentato con chiarezza ampie correlazioni tra cause alimentari e l’aggravarsi di patologie. Ulteriori lavori vanno oggi ad aggiungersi a quelli, svelando un meccanismo semplice e pericoloso in grado di causare patologie autoimmuni. Per capirne l’origine è però necessario un piccolo “ripasso” dei protagonisti cellulari e molecolari coinvolti.
Fino a qualche anno fa uno dei punti cardine dell’immunologia era la divisone tra molecole self e molecole non-self. Queste molecole, dette antigeni, se erano prodotte dall’organismo si definivano antigeni self, se non erano prodotte dall’organismo si definivano antigeni non-self. Verso gli antigeni self, con i quali viene a contatto l’organismo in giovane età, non avverrebbe una risposta immunitaria e l’organismo sarebbe quindi tollerante nei loro confronti; verso gli antigeni non-self, che si considerano più o meno come tutto ciò con cui l’organismo viene a contatto successivamente, ci si aspetterebbe una risposta immunitaria. Tempo ed esperimenti hanno dimostrato che la situazione non è così semplice: esistono alcune sostanze che stimolano la risposta immunitaria a causa della loro struttura (per esempio componenti come l’LPS, un componente chiave presente nelle membrane dei batteri GRAM negativi) mentre alcune sostanze pur essendo anch’esse “antigeni non-self” necessitano di sostanze definite “adiuvanti” in grado di stimolare una risposta immunitaria efficace, per esempio nel caso dei vaccini.
Una pubblicazione della dottoressa Polly Matzinger su Science nel 2002 ha proposto un modello alternativo particolarmente interessante definito “Danger Model” (in italiano “Modello del Pericolo”) che guarda alla questione da un punto di vista nuovo: non c’è una netta divisione tra self e non-self ma l’immunità e la tolleranza verso certe sostanze sono parte di un meccanismo dinamico che “sceglie” se una sostanza sia da considerare “pericolosa” o “non-pericolosa” basandosi su “segnali di pericolo”.
Le cellule dendritiche sono una popolazione di cellule che si occupa di “prendere” (fagocitandoli) antigeni dall’esterno e che andrà poi a presentarli alle cellule che saranno poi materialmente responsabili dei processi difensivi: i linfociti e in particolare, attraverso un processo definito “cross-presentazione dell’antigene”, i CTL (linfociti T citotossici). Verso questi antigeni potrà esserci una risposta immunitaria o potrà non esserci (verrà quindi indotta tolleranza).
Un’ipotesi del meccanismo attraverso il quale viene indotta tolleranza o immunità è presentato in uno studio pubblicato nel 2005 su Immunological Review che ha rilevato che la risposta immunitaria o la risposta di tolleranza dipende dalle sostanze (definite “adiuvanti”) con le quali sono fagocitati: se vengono fagocitati da soli dalla cellula dendritica viene favorita la tolleranza nei loro confronti, se vengono fagocitati e contemporaneamente la cellula dendritica percepisce attraverso recettori i “segnali di pericolo” viene favorita l’immunità.
Sarebbero quindi queste cellule dendritiche, basandosi su questi “segnali di pericolo” a scegliere se presentare come pericoloso o come innocuo l’antigene ai linfociti.
Questi “segnali di pericolo” come detto possono essere esogeni (componenti di batteri, ad esempio) ma possono anche essere endogeni e uno studio rileva come questi “adiuvanti”, molecole in grado di trasmettere alla cellula “segnali di pericolo”, siano presenti nel citoplasma delle cellule: questo meccanismo potrebbe permettere, ad esempio in caso di morte non programmata della cellula, di dare un segnale di pericolo grazie alla fuoriuscita incontrollata dell’adiuvante presente nel liquido extracellulare in modo da “allertare” le cellule dendritiche e ad aiutarle a considerare come “pericolosi” gli antigeni trovati e quindi a sviluppare immunità.
Gli adiuvanti (che fungono effettivamente da “segnalatori di pericolo”) quindi, se presenti durante la fagocitosi di antigeni stimolerebbero l’immunità nei loro confronti mentre una loro assenza indurrebbe tolleranza.
Ma come sarebbero recepiti dalla cellula dendritica questi segnali di pericolo? Secondo alcuni studi sarebbero recepiti dai TLR (Toll-Like-Receptors).
I TLR sono recettori molto conservati nell’evoluzione in grado di reagire a strutture tipiche dei patogeni (dette PAMPs: pathogen-associated molecular patterns) e si rileva su uno studio pubblicato su Immunology nel 2004 che alcuni di essi sono in grado stimolare la produzione di citochine pro-infiammatorie (cioè molecole “messaggero” che le cellule producono durante una reazione infiammatoria).
Un’attivazione dei TLR perciò corrisponde ad un “segnale di pericolo” per le cellule dendritiche e dunque favorisce una reazione immunitaria nei confronti degli antigeni presentati dalla cellula dendritica ai linfociti.
Alcuni studi molto recenti pubblicati su “The British Journal of Nutrition” e su “Food and chemical toxicology” hanno dimostrato una correlazione tra l’alimentazione e l’attivazione di TLR.
E’ perciò possibile che l’assunzione di alcuni cibi sia vista come un “segnale di pericolo” da alcune cellule e possa indurre, nel fisiologico processo di verifica degli antigeni cellulari da parte delle cellule dendritiche, una risposta immunitaria al posto di una risposta di tolleranza nei confronti di antigeni normalmente presenti su cellule sane e quindi verso antigeni che secondo la precedente classificazione sarebbero considerabili come “antigeni self”.
Ecco quindi un possibile collegamento tra l’assunzione di cibi con rilevanza per il sistema immunitario (per esempio nel caso dell’infiammazione da cibo) e patologie autoimmuni, in particolar modo se si parla di patologie autoimmuni dipendenti dall’azione dei CTL (linfociti T citotossici). Infatti sarà quindi più probabile che nelle operazioni di controllo da parte delle nostre cellule in caso di infiammazione da cibo il nostro sistema immunitario sia indotto a cadere in errore, con tutte le sue possibili conseguenze.
Questi dati evidenziano come una chiave di lettura che guardi all’infiammazione e alla qualità dei cibi come prevenzione meriti tutta l’attenzione del mondo scientifico per le sue molteplici implicazioni e conseguenze sulla salute dell’individuo. Ignorare queste correlazioni significa non disporre di tutte le armi per prevenire o contrastare queste patologie.