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Quando le etichette ci ingannano

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Quando finalmente prendiamo la decisione di nutrirci un po’ meglio, nel rispetto delle esigenze del nostro corpo, ci rechiamo al supermercato armati di buona volontà, con tutte le intenzioni di acquistare cibi naturali, integrali, freschi, senza inutili zuccheri o conservanti aggiunti. Dopo un po’ di ricerca, tuttavia, dobbiamo renderci conto del fatto che la caccia non sarà facile e che gli “specchietti per allodole” messi in atto dalle aziende per confonderci non saranno facilmente smascherabili. Come difenderci? Sul numero di “Correre” di Agosto è stato pubblicato questo articolo a nostra firma.
Prodotti senza zucchero
Una delle maggiori richieste riguarda da qualche tempo il reperimento di alimenti senza zucchero aggiunto. Si tratti di bevande lisce o gassate, di yogurt, di ketchup o di piselli in scatola, lo zucchero aggiunto è una costante. Ecco dunque il goffo tentativo da parte dei produttori di nascondere tale dato (sempre più visto con fastidio dal consumatore) o addirittura di esaltarne l’assenza anche quando non corrispondente al vero. Sono nati così ultimamente numerosi prodotti contraddistinti dalla dicitura “light” o “zero” ad indicare l’assenza parziale o totale di zuccheri. Ma possiamo fidarci della dicitura “senza zucchero”? La risposta è no. Vi sono infatti prodotti che espongono tale scritta affiancando più in piccolo tra parentesi la dicitura “saccarosio”. Tale scritta chiarisce, a chi legga, che il solo zucchero non presente nel prodotto è il saccarosio (lo zucchero da cucina), ma chiarisce con altrettanta evidenza che nel prodotto è presente un altro tipo di zucchero: fruttosio, maltitolo, glucosio, ecc. Che vantaggio può avere il consumatore da tale sostituzione? Zero.
Zero QI
Ancor meno vantaggio si ha quando il prodotto riporta la dicitura “zero”, che sta a significare zero zuccheri. In quel caso possiamo stare sicuri che nel prodotto sia presente un edulcorante artificiale: aspartame, saccarina, ciclammato, acesulfame. Su questi additivi edulcoranti, sulla cui cancerogenicità si è per anni dibattuto, sta oggi calando un’accusa molto più grave e molto meglio documentata: semplicemente ingrassano. Il dato è sconcertante ma scientificamente appurato: l’assunzione di edulcoranti, pur non apportando calorie, induce risposte metaboliche in grado di generare ingrassamento (Tordoff 1990, Levin 1997, Raben 2002). E allora stiamo a prenderci in giro?
Integrale o finto integrale?
Un’altra grande conquista è quella che riguarda la scelta di prodotti integrali invece che raffinati. Ampia documentazione vi è ormai sul fatto che un cereale integrale sia considerevolmente più salutare rispetto al suo corrispettivo raffinato. L’assorbimento dei suoi amidi è molto più lento e la sua ricchezza in fibra, vitamine, minerali e grassi polinsaturi (talvolta 5-6 volte maggiore rispetto al cereale raffinato) rende il prodotto integrale assai preferibile.
I produttori allora si sono messi in moto, proponendo paste, dolci e biscotti “tipo integrale” o “alla farina integrale”. Che differenza c’è tra “integrale” e “tipo integrale”? Che la prima è una definizione di legge, mentre l’ultima è una definizione di pura fantasia. In un prodotto “tipo integrale” potrà magari esserci il 20% di farine integrali: il resto raffinate.
“al” kamut
La parolina “al” (al kamut, alla segale, alla soja) non significa nulla, e prevede solo la presenza dell’ingrediente indicato, senza alcuna indicazione quantitativa. Quando l’ingrediente “al” è molto più costoso di quello base è interesse evidente del produttore di metterne nella ricetta la minor quantità possibile. Un maglione di cachemire – ci possiamo scommettere – sarà sicuramente diverso da un maglione “al” cachemire.
E a proposito di integrale un’altra cosa senza senso è creare un prodotto con un ingrediente più sano (come ad esempio un biscotto o un muesli integrale) lasciando poi nella ricetta un 30% di zucchero bianco raffinato (o di canna, che è la stessa cosa dal punto di vista degli effetti nocivi) e magari un altro 30% di grassi idrogenati. O il biscotto è sano o non lo è. Sarebbe altrettanto privo di senso usare un olio di prima spremitura da olive raccolte a mano, mescolato al 50% con olio di automobile usato. Ricordiamoci infine che “di kamut”, “di segale”, “di farro” significa che nella farina è stato usato quel seme, ma perché sia integrale deve esserci scritto kamut, segale o farro integrale. Se non c’è scritto, la farina è raffinata.
La bufala del colesterolo
Una grande buffonata è quella che riguarda il colesterolo. Negli USA ha per qualche tempo furoreggiato la scritta “Cholesterol free” su ogni genere di alimento vegetale. E’ noto infatti che il colesterolo è una sostanza prodotta dagli animali: i vegetali dunque ne sono privi. Ne è quindi privo l’olio d’oliva, ne sono prive le noci, i legumi, i cereali.
Il colesterolo si trova nelle uova, nelle carni, nei latticini. Indubbiamente ridicola dunque la scritta “Cholesterol free” che campeggiava su un famoso lecca-lecca fino a qualche tempo fa. Ma ancora più ridicola è la pretesa che il colesterolo ematico salga mangiando colesterolo. Ogni nutrizionista dovrebbe infatti sapere che l’assunzione di colesterolo alimentare non è in alcun modo in grado di aumentarne i livelli ematici, visto che il colesterolo alimentare è il più potente inibitore dell’enzima chiave per la biosintesi interna del colesterolo stesso. L’eccesso di colesterolo nel sangue è sempre di origine interna, e la molecola di partenza della biosintesi del colesterolo si chiama acetil-CoA, il quale si accumula per un’alimentazione in eccesso di zuccheri, grassi o proteine, senza distinzione. La dicitura “senza colesterolo” dunque, oltre ad essere una presa in giro quando si tratti di alimento chiaramente vegetale, lo è doppiamente quando a quella scritta si consideri associato un qualsivoglia valore terapeutico, anche solo preventivo.
Olio d’oliva: poca chiarezza
Già che stiamo parlando di grassi è impossibile non parlare dell’olio d’oliva, la cui legislazione, supercomplessa, sembra fatta apposta per confondere l’acquirente. Cerchiamo di consumare solo olio extravergine di oliva. Quello che viene incautamente chiamato “olio d’oliva” può essere, per legge, un misto tra oli vergini e oli muffi o rancidi. Se poi andiamo a scegliere gli oli cosiddetti “per friggere” (oli di semi superraffinati) stiamo ancora assumendo calorie vuote.
L’imbroglio del cioccolato
Anche il cioccolato comporta qualche insidia. Intanto va saputo che per legge si può chiamare cioccolato un prodotto con solo il 35% di pasta di cacao (e il resto zucchero). Se poi il cioccolato è “bianco”, la legge consente che contenga anche solo il 20% di burro di cacao (nemmeno di pasta!). Così che senza saperlo ci troviamo a consumare un prodotto con l’80% di latte e zucchero e il 20% di lucidalabbra, pagandolo al prezzo del cioccolato. La scritta “fondente” non basta a garantirci. Serve che sia indicata la percentuale di pasta di cacao, indice di valore del prodotto. La dietaGIFT consente l’uso di cioccolati con pasta di cacao maggiore dell’85%, ma ne esistono anche di più concentrati (90-99%). Solo così sappiamo quanto vero cioccolato stiamo comprando. A noi l’onere di renderlo poi più buono con pane integrale, caffè o altro.
Carni e salumi senza estrogeni o nitriti
Su carni e salumi il discorso sarebbe molto ampio. La minor salubrità di una carne rossa dipende senza dubbio dalla possibile presenza di estrogeni al suo interno. L’uso di estrogeni è vietato in Italia, dunque acquistando carni italiane si è garantiti dalla legge. Se le carni sono biologiche la garanzia è ancora maggiore. Cerchiamo dunque in etichetta la nazione di produzione (che dev’essere obbligatoriamente indicata), privilegiando carni allevate nel nostro paese. Tra i salumi, che è comunque bene consumare con moderazione, scegliamo quei pochi che non usano nitriti e nitrati come conservanti. Un elevato consumo di nitriti può favorire lo sviluppo di tumori.
Attenzione anche agli affettati di tacchino o pollo: spesso negli ingredienti hanno additivi inutili e ingrassanti come il glutammato (per insaporire), conservanti (nitriti) o sali e zuccheri.
Formaggi o acqua solidificata?
Anche i formaggi richiedono un’attenta lettura delle etichette. Un formaggio sano deve contenere latte, caglio, sale e volendo fermenti lattici. Null’altro. Se contiene anche polifosfati (sali di fusione), sbiancanti, coloranti, aromi artificiali, conservanti, vuol dire che vi stanno vendendo dell’acqua con dentro un po’ di formaggio fuso, artificialmente solidificata. Quasi un 50% dei formaggi esposti è sano. Privilegiamo quelli, rifiutando di consumare sottilette, formaggini e altri prodotti industriali (spesso molto pubblicizzati) i cui ingredienti nascondano un eccesso di lavorazione.
Altrettanto eccesso di lavorazione si trova a mio giudizio nei prodotti oggi di moda come spezzatini di soja, hamburger vegani ecc. Di solito la polvere di soja, così come il glutine dei cereali, non sa di niente. Per trasformarli in “finti” spezzatini o hamburger viene spesso aggiunto glutammato, destrosio, sale, conservante ecc. Se questi sono gli ingredienti, lasciateli sullo scaffale, privilegiando (e premiando con l’acquisto) prodotti più naturali e meno artefatti.
Il coltello l’abbiamo noi
Insomma: acquistare prodotti sani al supermercato non è per niente facile. Le leggi obbligano a riportare molte informazioni sull’etichetta: a noi il saperle leggere per difenderci attivamente. Chi produce e vende non sempre ha a cuore l’interesse e la salute di chi compra. Facciamo in modo che con la nostra scelta il produttore sia costretto ad offrirci un prodotto sano e buono ad un prezzo ragionevole. Se ci rifiutiamo di comprare il cibo-spazzatura, non vi sarà più nessuna azienda che avrà vantaggio a produrlo. Il coltello dalla parte del manico ce l’abbiamo noi: facciamone buon uso.
Neppure integratori e farmaci sfuggono alla regola della poca chiarezza in etichetta. Anche assumere prodotti consigliati o prescritti da medici e professionisti può talvolta essere rischioso.
Per esempio, cosa ci può essere di più semplice che assumere qualche grammo al giorno di proteine in polvere? Eppure se osserviamo la composizione di alcune delle marche più vendute troviamo presenti in varia misura dannosi edulcoranti (come aspartame, sucralosio, acesulfame K) o in altri casi percentuali variabili di zuccheri semplici come fruttosio o saccarosio. Ove tali percentuali si limitino a un 5-10% pare evidente il tentativo di “addolcire” in minima parte un prodotto dal sapore insignificante. Ma quando tali percentuali salgono al 20-30% si tratta di vero e proprio danno per il consumatore, che si trova a pagare a prezzo di proteina quello che potrebbe trovare a pochi centesimi all’interno della zuccheriera.
Se ci spostiamo nel campo degli integratori salini, che dovrebbero contenere prevalentemente sali minerali, magari veicolati da molecole organiche a cui si trovino legati, sono invece spesso zeppi di sostanze dolcificanti. Addirittura alcune delle marche più famose contengono il saccarosio (lo zucchero da cucina) come primo ingrediente. Non sarebbe allora più corretto denunciare il prodotto come zucchero da cucina con qualche grammo di sale aggiunto?
E le barrette? Spesso vengono pubblicizzate come salutare spuntino di mezza mattina o pomeriggio? Anche qui troviamo come primo ingrediente lo zucchero, spesso travestito dai suoi omologhi: sciroppo di glucosio, sciroppo di fruttosio, estratto di malto, destrosio, saccarosio. E’ evidente come tali componenti, in così massivo dosaggio, lungi dall’essere salutari, generino invece inaccettabili picchi glicemici, dal forte e documentato potere ingrassante. Che tali prodotti vengano poi venduti da aziende che li inseriscono in piani di dimagrimento o in diete specifiche risulta ancora più incomprensibile.
Fino a che si tratta di integratori, ciascuno può scegliere di lasciarli sul banco e farne a meno. Ma quando si tratta di farmaci come fare? Se analizziamo i più comuni sciroppi per la tosse (anche quelli naturali o omeopatici) scopriamo che ancora di zucchero si tratta. Certo, si tratta della ordinaria preparazione farmaceutica “in sciroppo” ma ciò non ci esime dal considerare che con una cucchiaiata a stomaco vuoto di quel prodotto la nostra glicemia salirà alle stelle. Non c’è pillolina, vitamina, compressa o polvere digestiva che non contenga anche un po’ di aspartame o di saccarina per rendere dolce la sua assunzione.
La gradevolezza di un farmaco, senza dubbio, ne influenza la vendibilità. Sarebbe però ora (in un mondo nel quale le sensibilità alimentari sono in continuo aumento) che i produttori si attrezzassero a prevedere, a fianco al prodotto tradizionale, anche alternative di pari potere terapeutico, prive tuttavia di inutili additivi, coloranti e conservanti che possono talvolta avere effetti collaterali inaspettati nei confronti dei pazienti più sensibili. Lo sportivo che non voglia vedere danneggiata senza motivo la propria prestazione dovrà stare molto attento a ciò che mette in bocca, sia nel caso degli alimenti che quando mette piede in farmacia.

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