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Le intolleranze alimentari esistono ancora?

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Confusione interessata

Quanta confusione di termini in ambito allergologico! Purtroppo questa confusione in alcuni casi è stata frutto di false informazioni interessate da parte di chi non aveva piacere che si potessero curare patologie serie attraverso lalimentazione. Nel caos diventa facile dire: tutti ciarlatani. Proviamo a capire meglio il problema.

Negli ultimi 50 anni la storia dell’immunologia clinica ha seguito vie molto diverse da quelle che sarebbe stato corretto e logico percorrere. Rivederne insieme gli errori più macroscopici può servire da un lato a meglio comprendere i fenomeni allergici attuali e dall’altro a non ripetere gli sbagli commessi. Cominciamo dunque a distinguere come fenomeni diversi tra loro i deficit enzimatici dalle allergie immediate, e queste ultime dalle allergie ritardate o food sensitivities (oggi ancora più correttamente inserite nell’area più estesa della cosiddetta “infiammazione da cibo”). Il termine “intolleranza” che tanta confusione ha generato in passato, non lo utilizzeremo se non come indicatore generico di un insieme di fenomeni differenti.

Deficit enzimatici

Con il termine “intolleranza al latte” molti allergologi hanno inteso – a torto – di definire solo l’incapacità di scindere il lattosio nell’intestino, a causa di carenza o assenza dell’enzima lattasi, a quello scopo deputato. Chi non è provvisto di quellenzima tutte le volte che berrà una tazza di latte avrà lintestino in subbuglio per laccumulo di lattosio indigerito. Problema che potrà evitare allontanando gli alimenti che lo contengono. Tali individui vengono chiamati intolleranti al lattosio” ma la parola in questo caso segnala semplicemente la carenza o inefficienza di un enzima. Non vi è alcun problema immunitario.

Anche altri deficit enzimatici (di solito di origine genetica) possono provocare problemi, come la fruttosemia (incapacità di smontare il fruttosio) o il favismo (deficit di glucosio-6P-deidrogenasi). Si tratta comunque sempre di enzimi assenti o biologicamente inefficienti. Quando parliamo di allergie, invece, cambia lo scenario.

Parliamo di allergie

Le allergie si dividono in due grandi categorie: immediate e ritardate (sensitivities). Quelle immediate dipendono dal fatto che una persona, già sensibilizzata verso un cibo o verso un particolare polline, produca degli anticorpi specifici relativi a quella sostanza, detti immunoglobuline di tipo E (IgE). L’incontro di quella sostanza (antigene) con i suoi anticorpi specifici IgE fa liberare grandi quantità di istamina e di PAF (fattore di attivazione piastrinico) a particolari cellule dette mastociti. Listamina (il cui senso biologico è quello di cercare di espellere gli allergeni pericolosi) è quindi responsabile delle risposte allergiche immediate o IgE mediate”: asma, edema, dermatite, gonfiore, starnuto, prurito. Stiamo parlando della classica fragola che appena ingerita ci fa riempire il viso di puntini rossi, ma anche della mandorla che ci fa gonfiare i tessuti della gola fino a soffocarci. Con le allergie immediate non si può scherzare.

Le “allergie ritardate” o “sensitivities” invece originano da reazioni cellulari non necessariamente mediate dalla sequenza IgE/istamina, ma su altri elementi del sistema immunitario come i basofili, i macrofagi o le IgG e, come dice il nome, possono non avere effetto immediato sull’organismo ma basarsi su modalità più complesse, di accumulo e tolleranza.

Il sovraccarico sfugge ai test convenzionali

Questo spiega perché i test classici per la ricerca delle allergie alimentari (Patch, Prick, RAST, Prist), basati sulla sola ricerca delle IgE, non rilevino questo tipo di risposta allergica. In questo caso le reazioni dellorganismo seguono un meccanismo diverso, legato allaccumulo nel tempo della stessa sostanza (o classe di sostanze), ripetuto quotidianamente o quasi. Tali reazioni cellulo mediate” o mediate da anticorpi diversi (spesso le IgG), sono ormai internazionalmente definite allergie alimentari ritardate” o, ancora più genericamente, “food sensitivities” o fenomeni di infiammazione da cibo, e sono un po’ più subdole. La risposta allergica infatti (che è poi spesso simile a quella dellallergia immediata) non si verifica in corrispondenza dellassunzione di un certo alimento, ma quando quella sostanza, assunta per più giorni di fila, provoca uno stato infiammatorio che supera un certo livello soglia.

A complicare la questione va detto che la soglia sintomatica può variare in relazione a particolari stati metabolici dellindividuo (stress, infiammazione preesistente, perdita di ore di sonno). Se dunque ci si trova di fronte ad una sintomatologia allergica conclamata che tuttavia non evidenzia ai test classici IgE alcuna sostanza responsabile, occorre porre il sospetto di allergia ritardata (o sensitivity): proprio quella che tutti – tranne gli allergologi – chiamano informalmente intolleranza alimentare”.

Misurare il sovraccarico

Per identificare una food sensitivity, che per la cronaca colpisce qualcosa come il 30-35% della popolazione (contro l’1-2% delle allergie IgE mediate), esistono diversi test che si basano su principi diversi, e che in Italia sono considerati test non convenzionali” dal mondo scientifico. La nostra posizione è che sia possibile individuare con facilità, come vedremo più avanti, una food sensitivity, semplicemente basandosi su un’attenta anamnesi alimentare del paziente (o con questionari appositi come il QuASA).

I vari metodi di indagine, dunque, non forniscono diagnosi, ma orientano la possibilità di interagire con il paziente, spesso con semplici diete di rotazione (alcuni giorni rieducando alla tolleranza verso il cibo incriminato con piccole quantità, altri giorni eliminandolo del tutto) al fine di ricreare la tolleranza perduta, come in un secondo svezzamento. Numerosi lavori scientifici, ormai, documentano la correttezza e la potenzialità terapeutica di questa modalità operativa, già a partire dal 2004, anno in cui Hugh Sampson, forse la massima autorità mondiale in campo immunologico, sul Journal of Allergy and Clinical Immunology definisce le allergie alimentari ritardate.

Nel 2007 Finkelman riconosce poi lesistenza di due modalità di risposta allergica. Una prima via, classica (dagli effetti immediati), basata sulla presenza di immunoglobuline di tipo E (IgE) e sullattivazione dei mastociti. Una seconda via, alternativa, incentrata invece sul ruolo modulatorio di altri tipi di cellule immunitarie (ad esempio macrofagi e linfociti) e su mediatori dellinfiammazione diversi dallistamina (F.D. Finkelman: Anaphylaxis: lessons form mouse models” – Clin immunol 120, n.3 (sep 2007:506-15))

Nella maggior parte dei casi queste due modalità si influenzano vicendevolmente ed è per questo che, alla luce delle nuove acquisizioni, ogni indagine allergologica condotta senza prendere in esame la via alternativa, deve essere considerata per lo meno incompleta. Per quale motivo si sprechino fiumi di denaro del nostro SSN per fare test inutili, che nella stragrande maggioranza risultano poi negativi, quando con un’analisi deduttiva delle sensitivities si potrebbero ridurre i sintomi allergici un modo importante, resta un mistero. O, per chi voglia pensare male, un modo raffinato per dire: “lei è negativo si test allergici, quindi deve per forza fare uso di farmaci”.

Cura o soppressione?

Sebbene più complesse da diagnosticare, le “sensitivities” offrono una maggior possibilità di intervento. Attraverso una dieta di rotazione settimanale che rispecchi lo svezzamento infantile è possibile infatti rieducare il sistema immunitario alla riconquista della tolleranza immunologica riducendo la reattività e controllando linfiammazione e la sintomatologia.

Quando il problema, tuttavia, viene posto a livello ospedaliero, ci si scontra spesso con il rifiuto a effettuare analisi o test diversi da quelli classici basati sulle IgE, e la strada più frequentemente percorsa è quella delluso di antistaminici e/o cortisonici, che – lungi dal curare la malattia – ne sopprimono semplicemente i sintomi fino a nuovo scatenamento. Si evita quindi di prendere in considerazione una strada che richiede un popiù di attenzione e impegno, ma che consentirebbe forti miglioramenti sintomatici quando non addirittura remissioni complete (questo il punto chiave) senza lintervento di farmaci.

La peggiore deriva di questo approccio è l’atteggiamento verso chi risulti negativo ai test classici: se non vi è reattività alle IgE il paziente è considerato “sano” e la dermatite/rinite/asma/colite/artrite che sta lamentando, altro non è (nella semplificazione di quel medico) se non il frutto della sua ipocondriaca fantasia malata. Il medico, non sapendo che fare, congeda il paziente con la ricetta di un tranquillante (ovvero: la malattia è una tua invenzione), nonostante ormai da molti anni le allergie ritardate abbiano assunto piena dignità scientifica.

Ultimamente le associazioni dei dietologi e degli allergologi italiane (fattesi forti dell’insperato appoggio di associazioni che richiamano ad una maggiore “appropriatezza” delle cure, dando in realtà agli specialisti stessi l’autorità di definire ciò che sia più o meno appropriato) sono diventate più aggressive, tacciando di “inappropriatezza” qualunque indagine rivolta ad appurare l’esistenza di sensitivities alimentari non necessariamente rilevabili o positive ai test classici sulle IgE. Ma chi è il vero ciarlatano? Il medico che, tamponando una grave carenza diagnostica, effettua un’indagine non convenzionale (o magari anche solo un’approfondita anamnesi alimentare) per avere una traccia sugli alimenti potenzialmente responsabili del problema, o quello che, ignorando gli ultimi 15 anni di lavori scientifici, e gli ultimi 30 di pratica clinica, fa finta che il problema non esista, prescrivendo un ansiolitico? È chiaro che, avendo le aziende farmaceutiche tutto da guadagnare nell’ignorare metodi di cura basati su semplici rotazioni alimentari, il punto di vista rigidamente ortodosso delle associazioni di specialità viene poi propagandato al grande pubblico come se fosse l’unica verità. Ma non occorre avere letto Ivan Illich e il suo splendido “Nemesi medica” per rendersi conto di come il mettere nelle mani di un gruppo di specialisti medici il potere di dire cosa è malattia e cosa no, possa espropriare del tutto il paziente dal proprio diritto ad essere curato con metodi più rispettosi, senza essere bombardato inutilmente di antistaminici, cortisonici o ansiolitici.


Tratto dall’articolo di Lyda Bottino su L’altra medicina numero 89.

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