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Diabete e resistenza insulinica: l’epidemia del secolo

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di Luca Speciani

Numeri preoccupanti
Se i numeri rappresentano in qualche modo la realtà dei fatti sanitari, non vi è alcun dubbio sul fatto che l’attuale “epidemia” di diabete sia una delle emergenze primarie del nostro tempo.
I dati ISTAT parlano chiaro, e si commentano da soli.
Nel 2016 oltre tre milioni e duecentomila persone, in Italia, dichiarano di essere affette da diabete: il 5,3% dell’intera popolazione, che diventa un drammatico 16,5% fra le persone di 65 anni e oltre. A questi andrebbero aggiunti tutti coloro che, senza rendersene conto, sono resistenti insulinici gravi alle soglie del diabete, senza rendersene conto. Un numero che si stima pari a quello dei diabetici già diagnosticati.
Non è sempre stato così, però. La diffusione del diabete è quasi raddoppiata in trent’anni (coinvolgeva solo il 2,9% della popolazione nel 1980) e anche rispetto al 2000 i diabetici sono un milione in più. Una vera epidemia a fronte della quale le preoccupazioni ministeriali verso alcune patologie infettive impallidiscono.

Una malattia da vecchi?
Quando ero un ragazzino la parola diabete evocava in me l’idea di una “disabilità”, di una condanna inequivocabile con la quale alcuni poveri ragazzi sfortunati dovevano fare i conti. Il compagno di classe diabetico (di tipo 1) doveva stare attento a diversi cibi (non mi era chiarissimo quali) che potevano per lui essere pericolosi, e senza quel controllo poteva rischiare convulsioni, coma, morte. Si trattava però, nella mia testa, di una condanna del fato. Uno scherzo del destino contro cui nulla era possibile fare. Il diabetico adulto, raro, era meno visibile e le cautele verso lo zucchero di qualche nonna potevano essere facilmente confuse con semplici attenzioni alimentari. Perché il diabete adulto (diabete di tipo 2) è una malattia a lento sviluppo: lento è l’instaurarsi di una progressiva inefficienza dell’insulina, lento è il crescere graduale dei livelli di zucchero nel sangue (glicemia), lento è il verificarsi delle gravi e gravissime complicanze legate proprio al danno cellulare e vascolare delle proteine glicate su vasi e tessuti (micro e macro vasculopatie, neuropatie, degenerazioni retiniche, cecità, amputazioni, infarti). Ma se c’è (c’era!) tutta questa lentezza nell’aggravamento clinico, perché oggi assistiamo impotenti a un incremento esponenziale del numero dei diabetici adulti, e soprattutto ad un’accelerazione del processo tale che dalla “nonnina golosa” il problema si è spostato ai manager rampanti quaranta-cinquantenni?

Malattia dei poveri e degli incolti?
Dove sono e cosa fanno, per il diabete, quei parlamentari che tuonano a giorni alterni contro le prossime sicure stragi di varicella e di rosolia? Quando la finiremo di coprirci di ridicolo in cambio di umilianti contropartite economiche?
Il problema evidentemente ha radici diverse, una delle quali è l’elevatissimo costo sanitario (che grava su noi tutti) del malato di diabete e delle sue gravi comorbilità (cardiovascolari, neurologiche, ortopediche, oculistiche).
Il diabete, per esempio, è una patologia fortemente associata allo svantaggio socioeconomico. Le donne diabetiche di 65-74 anni con laurea o diploma sono il 6,8%, le coetanee con al massimo la licenza media il 13,8%. Le donne con titolo di studio basso hanno poi un rischio di morte 2,3 volte più elevato delle laureate.
Come giustificare questa enorme differenza? Perché una persona culturalmente più dotata riesce meglio a sfuggire al diabete? Basterebbe forse più informazione sui danni da zucchero per prevenire morti e malattia? Questo è un altro piano su cui muoversi.

Un mediterraneo diabetico
Questa patologia è inoltre più diffusa nelle regioni del Mezzogiorno dove il tasso di prevalenza standardizzato per età è pari al 5,8% contro il 4% del Nord. Anche per la mortalità il Mezzogiorno presenta livelli sensibilmente più elevati per entrambi i sessi. E ancora stiamo a parlare come top standard di una non meglio definita “dieta mediterranea” in cui i carboidrati raffinati vengono indicati come base nutrizionale dell’individuo?
Obesità e sedentarietà sono poi rilevanti fattori di rischio per la patologia diabetica. Tra i 45-64enni la percentuale di persone obese che soffrono di diabete è al 28,9% per gli uomini e al 32,8% per le donne. Nella stessa classe di età il 47,5% degli uomini e il 64,2% delle donne con diabete non praticano alcuna attività fisica. Sono numeri che parlano da soli. L’attività fisica regolare è il più potente farmaco antidiabete oggi conosciuto. Favorirla anche nelle fasce meno abbienti potrebbe prevenire molte morti precoci e ridurre in modo rilevante i costi sanitari del nostro paese. Che sia questo il motivo per cui vi è una totale inerzia nel combattere questa piaga con metodi non farmacologici?

Ricatti occulti
Con questi dati non è difficile capire che i costi sanitari per la cura di questi pazienti sono in crescita esponenziale, e naturalmente (ticket a parte) a totale carico del servizio sanitario nazionale.
Perché si fa poco o nulla per combattere questa disastrosa patologia i cui effetti, economici e sulla salute, graveranno in modo insostenibile sulle spalle dei nostri figli?
La risposta è complessa, ma proveremo qui a suggerire delle chiavi di lettura della realtà un po’ diverse da quelle che quotidianamente ci vengono ammannite da media pusillanimi quando non asserviti ai diktat dell’industria dolciaria, da me minuziosamente descritti nel romanzo “Il medico che scelse di morire”. Fino a che non passerà un deciso segnale culturale che descriva i danni da zucchero e li faccia conoscere almeno quanto sono conosciuti quelli da fumo, da alcol e da altre droghe, sarà difficile impostare iniziative di ribellione contro questo sistema. Perché le aziende di settore (che lucrano sulla vendita di cibi spazzatura le cui materie prime – zucchero e farine raffinate – costano pochissimo e si conservano ad oltranza) non sono spettatrici passive: interferiscono purtroppo pesantemente sia a livello legislativo (attraverso lobbies parlamentari), sia a livello di influenza mediatica, esercitando il cosiddetto “ricatto pubblicitario”. Quell’influenza occulta che fa sì che TV giornali e riviste non osino mai parlare male di zucchero e affini se non vogliono che le aziende smettano di fare pubblicità sulle loro testate.
Eppure l’effetto diabetogeno delle bevande zuccherate è da tempo molto ben documentato (si veda ad esempio Ebbeling et al – Pediatrics 117; 2006, Effects of decreasing sugar-sweetened beverages consumption on body weight in adolescents). Perché nessuno si straccia le vesti di fronte a tanta negligenza e sottovalutazione del problema?

Una semplice verità
La domanda da porsi è: cosa fare, dunque, come medici e come cittadini, per muovere passi decisi nella direzione in cui pare nessuno voglia andare?
Le vie maestre per prevenire l’insorgenza del diabete che – ricordiamolo – nella sua versione adulta è e resta una malattia a lenta insorgenza, sono in estrema sintesi:

  • Un’adeguata attività fisica
  • Una riduzione dell’assunzione di zucchero e di carboidrati raffinati.

Sic et simpliciter.
Perché la verità, che viene accuratamente celata al grande pubblico, è che iperglicemia e diabete sono malattie del tutto reversibili, se affrontate prima di diventare insulino-dipendenti. I farmaci servono a poco o nulla se il paziente non incomincia a muoversi quotidianamente e non inizia a praticare con costanza una dieta priva di zuccheri aggiunti e di farine raffinate. Perché invece dobbiamo assistere impotenti all’operato quotidiano di colleghi che – totalmente impreparati sul valore di dieta e movimento da un sistema scolastico asservito – dicono al paziente: “Stia sicuro: con i farmaci potremo rallentare la progressione della sua malattia, ma indietro non può più tornare…”?
A chi giova annebbiare le coscienze degli operatori a tal punto da impedire loro di vedere i miglioramenti rapidissimi che il paziente riscontra non appena inizi a seguire una dieta davvero antidiabetica abbinata ad un regolare movimento?

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